Giocatore di whisky, bevitore di poker
Tante sono le cose già dette, altrettanti i modi usati per dirle; e se molti di questi sono 'passati', altri invece rimangono per ispirare i giovani coloni dell’infinita terra dello scritto, iniziarli ai molteplici percorsi obbligati in cui si articola l’atto del confronto.
Sta al Tempo e alle sue innumerevoli memorie decidere se alla voce di Daniele Campanari potrà essere assegnata un’eco. Quel che è certa è la natura del suo inizio, personale interpretazione di una combinazione - già adottata - che fonde la prosa alla poesia. Nel suo “Giocatore di whisky, bevitore di poker”, prima orma tracciata da ‘I Destrieri’ di Aphorism per la casa editrice Lettere Animate, il discorso è un de-scrivere che spezza spezzandosi in battute, in versi diretti, volutamente caustici, con cui l’autore-personaggio scrolla dalle spalle i suoi granelli di rabbia e se ne prende gioco. Da Twitter (“Twittami, baby”) al sesso occasionale (la coppia di componimenti della “Donna in albergo”), passando per visioni scanzonate di squallori spazio-temporali emersi dalla vita urbana, questo linguaggio del reale reca l’ombra di Bukowski, ma mostra di più - e suggerisce di meno - rispetto alla sua illustre ed incombente sagoma. C’è più nella parte che nel tutto: nei frammenti, nei distici la cui diversità nasce per caso, Campanari afferra la poesia per la coda offrendocene l’ultimo guizzo; come quel «Sopravvivo alla fine della visiera» nell’ “Illustratore di realtà”, o il «Dove giace la verità? / Tra i cavilli del supplizio, forse» di “Verità atto II”. E nelle sue invettive, che per certi aspetti richiamano le canzoni da osteria di Mannarino, esplode la carica provocatoria e paradossale di un cinismo che condanna i cinici, «amabili corrotti di una letale e finta vitalità».
Quella di Campanari è un’autoanalisi che si nutre del mondo: consapevole di non poter eliminare le brutture da ambedue le parti, prova a riderne. Non sempre ci riesce. Del resto, come scritto da Davide Rondoni in prefazione, «questo poeta sa una cosa fondamentale […]: l’uomo è ibrido». Più che saperla, forse, la mette in pratica. Mescolando tutte quelle cose dette e tutti quei modi già usati che poi, se ci si pensa bene, fanno la differenza nella maniera in cui si incastrano. Ciò che conta è che abbiano una forma riconoscibile. Che la “gioia poetica” di cui parla Pavese, citato in introduzione al libro - prima o poi possa essere realmente condivisa.
Lettere Animate
122 pagine