Cento 40

Di me non resterà carne ma una nera architettura di ossa
a cui tenteranno invano di fiutare l'inchiostro spremendo
fra il femore e la spalla. Di me non resterà  un bargiglio,
nè un sonaglio o una culla, ma una parete di lettere
occhiute dall'insonnia procurata. Un giorno diranno:
questa è sua figlia, vedova e sposa, una piana comare,
una tetra creatura zoppicante sul rigo con due stampelle
di versi e la foga. Ma l'ha cresciuta bene, noteranno,
impastandola con ventosi rimasugli abbarbicati
fra un verbo ed una virgola. Di me non resteranno
venute pacchiane, piuttosto sedie fiere di silenzi
e pianti appartati in condanna.  Riesumeranno alla pagina
un paio di segreti, forse anche una spina, poi rimetteranno
tutto in ordine, lo faranno di fretta, in paura.
Così sapranno che la parola è una lapide
su cui ognuno legge le proprie esequie.