Cento 47

Mia nonna era una stanza, un sonetto, un solfeggio
di ossa brevi ed intonate. L'edera il pentagramma
tra cui passavano il giorno e la burrasca.
Nei miei occhi vedeva lo stomaco della conchiglia
che non aveva ancora digerito il mare, quando mi
calzava bene il fiocco verde della quinta, come
un prato da cui fioriva il collo. Mia nonna era la
stanza sorvegliata dal sole di Maggio, con il
silenzio di piantone, un tremolio accusato e
prigioniero a cui facevano visita la tosse e la
lentezza.  Oggi le direi che non ho giocato
bene le mie carte ma che ho raccolto un cuore
dalla riva, bello come la Pasqua negli orti.
Le direi che non insegno più il mare
dagli occhi, ma ho ciglia ansiose di imparare,
che nel mio petto la tristezza è già dietro la lavagna.