Cento 48
Tutti mi dicono come tenere ferma la bocca
mentre il giorno impasta un'altra porzione di vita
svariata, tutti mi fanno segnali di crudo, di male,
anche di fame per illustrarmi come piegare
il capo, la schiena, come flettere il sorriso,
sbattere poco le ciglia per non assentire
ed appagare il dissenso, come annidare la
pupilla ad uno sguardo incapace. Tutti sono
bravi ad indicarmi la corretta postura per
essere pronta ed in carne quando arriverà
la sbandata, la tossica, l'irrisolta, la sfregiata:
si lei, la felicità che, secondo natura, doveva
starmi da qualche parte fra il ventre e la mente.
Fanno grandi discorsi, panegirici e si perdono
la mia attenzione, il mio malumore da ultima del
registro, da ultima della fila. E poi mi chiedono
anche di ripetere la lezione, la dizione, quell'ottuso
falsetto di una contentezza sparata a salve. No,
non posso imparare, non certo così: sono già
bocciatura di me stessa, la mia campanella suona
sempre in ritardo e mi promuove solo l'angoscia.