Cento 83
Non dovevo esserci, non quel giorno, entrare nel tuo camerino
per addossarmi la veste sguaiata della colpa, o scostare
i capelli dal viso perchè lei, eccitata, mi riconoscesse e
timbrasse con il suo indelebile marcio. Ma dove avevo la festa?
Era poco più avanti, tra la curva e l'onda, l'oleandro e la bifora,
il parto e la giostra. Quella era la mia destinazione, lo scalo,
il tragitto, la pensilina. Non dovevo infilare la testa nella cruna
credendola una collanda di copie irripetibili, oggi la tua lingua
è scesa come una mannaia a tagliarmi da chi sono, a disossarmi
da ciò per cui ho vissuto. Forse per il mio buio, per la porta socchiusa
che tutti gli altri dicono un'orecchia sul cuore a tenere il segno,
così che possa rileggermi ed arrossire all'errore. Ma non mi si
intona più ciò che non finisce in lacrima o sorriso e barcolla
sbronzo di inezie, di inerzie: non mi fido della luna quando ha voglia
e sceglie quale parte offrire nuda alla fame del cielo.