Cento 89

La mia fabbrica di parole chiude per ferite: il
morbo stava dentro e si fingeva paziente, così
tutti gli sono accorsi intorno e mentre disperavano
la sua salute, si contagiavano allegri. Hanno scardinato
l'inizio, la defezione è venuta dalla pancia, fra un rigo ed
il secondo, albeggiava virulenta l'ultima infezione. I ribelli
hanno occupato tre scanni, fuso l'orario di lavoro in una
medaglia al dolore. Non mi hanno rispettata, proprio loro
mie fide! Menestrelle e megere, tabacco di scarsa
qualità che esalava un bel fumo. Ma sotto stavano
già tramando la fine, una carboneria scritta, la spranga
sulla bocca. La mia fabbrica di parole saluta gli astanti,
ringrazia lei per l'impiego che ha dato, lamenta che le sue
operaie, impollinatrici di bianco, untrici d'inchiostro, si siano
ammutinate senza un giorno di preavviso. Era una rivoluzione,
un censimento di rabbia. Non so dove andare: io stavo bene
là, nella mia cabina comando, seduta in alto, come il cielo sta
seduto sulle torri. Adesso la pagina è violata, spalancata, ha il
costume stracciato di un cancello divelto. Vado anche io.
Ma la libertà era quella che stava fra un turno e l'altro di versi:
e' l'ora d'aria più lunga ad ammutolirmi.