Cinque Cento Cinquantasette

Pensarti è fare la valigia ogni ora,
neutra cornamusa con le ruote,
pecora passata dai Sioux a cui infilo
nella pancia destinazioni come aghi.
Ho tutto l'occorrente: nei pensieri
sono ordinata, non solo puntuale di quella
puntualità che mi ha ritardata.
L'elenco è fitto: scarponi da trekking, qualche
trappola per lupi, fischietti e tomaie, un lazo
per far da mandriani alle lucertole, se possibile
anche alle stelle e taccuini  a  cui, ne sono certa,
affolleremo anche gli angoli come si fa
a volte sotto le coperte puntando i piedi,
cercando il vertice più caldo.
Scriverò la faccia del nord ed i nomi delle valli,
quasi tutti con il coccige sporgente, pungiglione
in consonante, quella strana terminazione
che lascia l'acquolina senza mai addentare
il boccone. Un treno spezzato a metà corpo,
un soldato con gli stivali rintuzzati.
Pensarti è me e te stesi accanto ad uno dei
tuoi ponti, arcobaleni di pietra sopra i fiumi,
è aspirare il marciume dai fossati e sentirvi
acre la colonia dei rospi mentre giocano a campana.
Pensarti è tenerti la mano mentre mi porti,
Ma dove mi porti? Ah, si, dove non ci sarà mai
mare  ma solo un cavalletto di montagne
su cui salire per scattare  il cielo.
Pensarti è un albergo con il tetto a punta
come il cappello di Merlino,
una camera d'albergo e la signora  che
gentile ci affida il letto  come un cane.
E una volta entrati, scorgere dalla finestra,
attaccato al davanzale come un busto,
il femore di un tronco, nero di trombosi
da distacco, un po' scuoiato e proprio
lì riempito da un cerotto di gerani con te
che in un orecchio piano mi sussurri che
per me ne farai di più belli, tutti fuori appesi,
come monili al collo della nostra casa,
chissà dove, con sette stanze, con otto aiuole.
E poi toccarti  e dire che è tutto vero mentre
scoloriamo lentamente ed ognuno torna
ad incassare il proprio posto
al gong di fine della  ricreazione.