Cinque Cento Cinque
Niente rime, piuttosto ricami,
onda d'urto che spazza il contorno.
Le terrazze agghindate di aprile
fanno smorfie esaustive,
l'amplesso dei gechi,
companatici fra i muri e la
sera, uno schizzo di luna
venuta in anticipo, è già
tardi da qualche parte
fra i Lattari ed il brodo
del mare. Io mi ero finta
tutto un amore e ci stavo
in quel lago due metri
per due con i piedi puntati,
il fondale sotto la pianta,
radice sterile, solo pretese
di gonfiori corretti.
Mi ero finta tante cose:
orpello, sedia , badia,
lucernario, coda e cometa.
Sentivo tutte le mie parti
accordare appuntamenti
col mondo, arrivare e mancava
mezzora, ed in fretta sloggiare,
rincasare quasi sempre in affanno.
Poi tu, altissimo come i fari
in bocca alle boe, otorinolaringoiatria
degli abissi. Sulle tue gambe
come su un precipizio: i giorni
allagati, invasi, crepati.
Non so più contare, combaciare,
rammendare e frenare.
Tutto di questa razza con cui
mi cucirono il cuore ha la tua
firma accucciata sul bordo,
marchio di fabbrica e fabbricante.
E per montarmi e riassestarmi,
il verso è quello dove tu resti:
quattro bulloni con le tue mani.
Tanto poi basta per darmi funzione.