Cinque Cento Novanta

Ancora vengo in tuo nome, tutte le ossa fanno
la croce, il cuore confessa il mio ventre, le braccia
si vorrebbero ali, spirito poco santo, devozione da
bicchiere, preci da tabaccheria.  Sono la più a sud
delle tue cattedrali, fagoceri di meches che ti
assaggiarono prima di me per non deglutirti ma
nelle mie navate scorre il tuo siero, pozione perfetta
nata da un domani in perenne ritardo, setaccio  per
intrugli di dubbia composizione.  Sono guglia?
No, sono doglia, ma più insistente di un campanile: di tanto
in tanto mi scuotono svegliando il dovere al battaglio,
gelida tonsilla ingrossata, figlia obesa, intasatrice
di tutto il cavernoso piazzale.  Che se poi facessero
meglio, ancora di te si parlerebbe, di come mi faccio
buona , obbediente e sanata, burattino in attesa di
raccomandazione, quasi pronto ad impilarsi di carne
e vedersi vestito di vene, di tane dove accucciano i
desideri. Cani per troppo tempo affamati che ancora
fiutano il tuo sapore a distanza di giorni.
Non basta la pioggia, non lava via nulla l'osceno
battesimo di cui mi vogliono destinataria.
Non ho bisogno di esperti per  sentire dove
crollo, so stare alla larga dalle tavolozze
imbandite ad uso restauro.
Basta sfilarmi via il tuo nome come la
sorpresa dal pesce, la lisca è una rosa,
breve trave pari e portante  per fotografarmi
nel barbecue fumante  di una  cinerea maceria.