Cinque Cento Ottantatre
La casa è disabituata, io son l'eretica
che l'ha disabitata, emigrata senza coda
a giugno o non ricordo ed esiliata pur
riempendola di più me, sempre occupati.
Una gruccia più non basta per metterle
il fardello ad agio ed a riposo, riposta
ormai ogni cosa, alle mie domande tacciono
tutti i muri e pure i pavimenti.
La casa che mi spoglia , di me non è più
figlia: mi guarda dall'alto del suo muso
e del tetto, la riga in mezzo, bis da parrucchiere
ed ossa da rigattiere. Ci scrutiamo, preda e
predatore: dove tenevo i miei segreti
non era un buco, nè un ascensore.
Mi ammalerò di nuovo, sul divano,
tappezzeria altrui è già sdrucita,
buttando gli occhi nella tela di un
panorama, Sindone di banale ispirazione,
poi cercherò sostegno nelle placche azzurre
della ceramica, tonsillite a doppia cottura,
nei bernoccoli di limoni, pustole dagli angoli
tondi. Ma il mio cuore, degradato carillon,
strozzò di soppiatto la sua ballerina, chiudendo
la valvola con la velocità maligna di una trappola
da piramide, e maledetta. Così che adesso
quello che si avverte, dal letto alla cucina, dal molo
del terrazzo all'albero e alle travi, è tutto suono,
gracchiante abuso, forzato quasi a stare in piedi.
Un, deux, trois e pirouette, la caviglia gonfia,nessuna
evoluzione. L'etoile rossa di sangue, già riemerge, lo chignon
spettinato essere sconcio e se la vedi, la morticina, è
mummia riesumata, sa di cadavere, è putrescente
e con lo sguardo decomposto, perla andata a male,mi spia
sinistra dalle valve del vital tamburo.
Come un fantasma, che rievocato, con un tum
risponde alla seduta e vibra fra le costole impaurite.