Cinque Cento Quarantadue
Ti abbraccerò e dirò che stai
bene, che la cura, litigio e distanza,
il dagherrotipo dei si, ma no, e basta,
può darsi, che importa, ti ha rimpolpato
le ossa per reggere meglio il carico
sempre sporgente, arti fuori sagoma,
il pane da solo non sana. Però la
medicina è la stessa: tre giorni di
vento, un weekend di tapparelle
a lutto, poi sole fino a nausearsi
sui polpacci a segno, dritte frecce
di carne. Indosserai il solito
ventaglio di odori che non conosco, senza
farmi notare cercherò di dar loro una casa,
un nome, una coda o una gonna, poi,
spaventata, dirò che è essenza da mercati,
da bar, da piazza con le sedie e la plastica
abbronzata dalle intemperie, sai quel
flaccidume seppia su cui si abbandonano
i retri di interi pomeriggi. Percorrerò dallo
sterno alla gola una fossa a me cara, che
poi sia stata terrapieno di altre battaglie,
frontiera agli sguardi che inevitabilmente
ti hanno bagnato, quasi io me lo nego,
le palpebre del tuo respirare hanno
poteri occulti, dimentico anche l'ora
della realtà stretta dove tu sai.
Ti abbraccerò e dirò che conviene
accostare un poco la luce, oriunda
su certi pavimenti da poco, balzana
l'idea di darle spazio: ho fremore ed
istinto di falena, di talpa, di Dracula
da fondale e con la solita antenna
sintonizzata sui cambiamenti del
mare, farò come fanno le formiche
eccitate dal boccone sbriciolato.
Possono sollevare appetiti
grandi come grattacieli, sapevi?
Si, tu sai tutto del popolo che il
caso risparmia alla jihad delle suole.
Ti abbraccerò e dirò al crotalo che
qui dentro con te si è intonato:
questo è lui. Stenditi, appianati,
scusati, perdonati, insegnati, iniettati,
annientati, stordisciti, insultati, tieniti,
adattati, ambientati, accettati, finisciti.
Ma poi afferra, tratttieni, adesso non
dopo: non esiste morte più sciocca
di quella che si poteva obliterare
quando, arrivata la salvezza, la si
ignora credendo quell'occasione
giunta in formato di gregge.