Cinque Cento Quarantanove
A quell'ora avevo già fatto. Si, era fatto.
Il labbricino della Piazza bordato da
una matita d'inverno, foglie e foglie
a cumuli, a gazze, a secchiate, a iosa,
per gioco. E tu: tu lo sentivi?
Tu mi sentivi? A quell'ora ero io nave
in altra bottiglia, le vele un po'
inginocchiate dalla coscia del vetro,
rannicchiate, come i bambini che
nel nascondino sono ancora più
bambini e a cuccia sotto i lavelli,
o dentro gli armadi, aspettano il
bu e la faccia tonda della sorpresa.
Ah, gambe due e dal nord di mestieri,
di binari, di petrolchimici e piane.
Ah, mani d'artista e di padre mancato!
Io, io davvero il gheriglio in quel
palmo osannato? Una ola alle sue
spalle che non finivano come il
ricordo più prossimo: piccole,
quasi sempre riverse in direzione
opposta alla mia. E poi, voglio dire,
come ha pescato il mio respiro
quel giorno: dove avevo prima
respirato era solo un singhiozzo.
Sono io quella? Quella distesa?
Quella con l'ombra più alta e
di fronte che su lei si curva e
le cava dal ventre un grido bianco
sempre più nuovo? A quell'ora
avevo già fatto: avevo già scelto
e mai scelta più folle, perfetta.
Del mio grande aquilone soffiato
da colli dove le lettere da sonore
si assordano, io tengo il filo.
A quell'ora era la data già incisa
e la promessa, se anche si slabbra,
fila, si tende e a volte sembra già ceda,
polpa bacata, ha acciaio per ossa,
per doghe.
Ed io sono sua ed io dormo e non
avrei altro sonno altrimenti, piegata
a tutte le ore che da quella prima
moltiplicano ancora: conigli e conigli
dalla mia gaia, materna e fertile segreta.