Cinque Cento Quarantasette

La ragazza porta a cuccia le capre,
il recinto si infiamma, tonsilla
ingrossata che frigge alla fiumana
della saliva: sembravano otto,
da otto gemmano in venti, poi
sono trenta, meduse con il cappello
lattiginoso. Quattro cani ai lati
come gendarmi, come i piedi
nel letto, gli angoli nel ring, stecche
da biliardo e lanugine, lanterne alla
buca del pascolo; per una è
già pronta la fossa, la vecchia.
La ragazza è vestita alla moda
ma ha lingua da bestie: indossa
scarponcini chiodati, suole in guerra
sui declivi minacciosi, fisarmonica
di ripidi ramarri. Già vanno intorno
i turisti, yo yo nei coni delle monovolume
affittate, infilate fra i tornanti come sali
nell'uretra, calcolabili disagi. E con le
facce da bandiera salgono e scendono,
staffetta sempiterna di limoni e panorami.
La ragazza tira su il cappuccio, la pioggia
in calzamaglia, saio da governante di
greggi, timoniere all'asciutto: io mi domando
quanto ti piacerebbe la stoffa con cui mi
hanno cucito i monti e le vie, bella l'impuntura
dei tetti, rondini senza collo, colombaie
abusive. Bella l'impanatura blu sugli
scogli quando le onde sollevano il gomito
e sono così folli da ubriacare perfino
le file dei primi bagnanti.  Mi domando
e ti perdo, con la stessa lucida certezza
con cui le stelle tornano ad affiggersi al
Cielo, cento Cristucci nell'eterna tredicesima
stazione, candele fuori fuoco.
Ma tu amore, amore che stai dall'altra parte,
che mi rimproveri ed ami in egual misura,
ma tu  e solo tu possiedi l'innesco per farmi
brillare. So già che se anche questa volta
non mi prenderai alle viscere, premendomi
a fondo, pigiando, so già, si lo so, che arriveranno
in dose rinforzata le valigette, deus ex machina
degli artificieri con cui smorzare anche questa
leggenda del moccolo, questa primizia che
sembrava pronta ad esplodere e a fare
finalmente per se i disastri più belli.