Cinque Cento Quarantotto

Mio padre, mia sveglia, mi scelse dal
ramo su cui tre stagioni in più dovevo
restare. Ma lui niente, il testardo!
Manovrò abilmente la cruna fra i lattiginosi
preliminari, neonata di mesi, proibita
alla rete e punse con l'ago, magistrale
il miracolo, là dove bene mi tennero
in acqua. Ed iniettandomi da colonna
a cattedrale, era  ormai fatto il lavoro:
mi fabbricò casa e destino. 
Tre stagioni, bastavano tre,
di cumulazione, di irrobustimento:
bisognava aspettare.
Ma lui niente, era l'ora: mi tirò
giù dal tetto su cui occhieggiavo,
solo testa, un puttino, cefalo, tutto il corpo
compresso,  i piedi e le gambe in galleria,
motrice senza mai busto, e mi trovò
il posto. Mi voltarono: capo in giù,
come un siluro, piedi a nord.
Sul rullo di Febbraio già in corsa,
figlia di neve, lontano Febbraio,
lucertola mozza, la coda che ancora
tremava dell'unico nervo in corrente,
isolato dalla mannaia del Marzo
precoce.  E con il suo sfiato, mio
padre,  mi mise là dentro a
crescere tonda, prua di carne,
io Giona? Avanzavo come la
bugia di Pinocchio. Ma il frutto
che non è sicuro e viene fuori
anzitempo  non ha consistenza
e sapore sinceri. Dovevo restare
ancora là:  si lassù o là sotto,
fate voi, o non fate. Forse dovevo
restare per sempre: indurirmi,
gonfiarmi quel tanto e poi dire,
ad afflato completo:" Sono pronta!
Staccatemi, avanti! Giù con la lama"