Cinque Cento Quattordici

Le bambine sono papaveri, audaci
d'innocenza nelle conte ereditate:
la cena è nell'incubatrice, paraventi
di insalata  fioriscono, fredde giarrettiere
intorno ai secondi delle carni.
Le diciannove e fra le aiuole compaiono
in quattro con i nomi e con gli elastici,
le gonne calde di piega, lucido affioramento
di rossetti ancora intonsi, poi giocano
alla danza mentre la luna impicca
un'asola di cielo. E' sera qui, più
sera che altrove: i gelsomini
tardano a sudare ed un frack di nubi
liso dai venti, Colosseo spumoso,
rilascia leoni gialli sulle ossa del
Cilento, ancora innocui come mici.
Amore mio, prima delle rughe,
delle diottrie, di selle rigide
a cui dare in adozione i femori,
prima delle pozioni di pastiglie,
degli intrugli salva pena, vorrei
essere piena  e più di tutti
gli otri, dei vasi ecrù, foche di
di gerani e folla di viole, delle
bottiglie che ingoiano
vele a bocca asciutta.
Tenermi annodata per i mesi
che si sanno la creatura con
la tua razza incisa a fuoco.
Farmi abitare, un solo ingresso
e micidiale e poi ragionare con
tutte le finestre sfitte, le porte vergini,
con gli zerbini in piume e le mandate
al primo volo sul tardo copione,
tardo battesimo schizzato
a lavare via le attese.