Cinque Cento Sessanta
Eccomi già in quarantena.
Coprifuoco. La mia siccità
da laboratorio sferruzza sottocoperta
e sancisce con un rammendo esemplare,
rabbocco di razza, la fine del casuale
piovasco. Un fortunale: questo serviva.
Irruente carica senza controllo, sboccatura
violenta, esondazione, diluvio senza la pace
dell'Arca. Ah, ma ci hanno provato.
Mi avevano intessuta per bene, fissata
agli arti perchè non andassi, quattro puntali
rivolti all'ingiù, tipo paletti che, rimestando,
cercavano il cuore. Ci hanno provato, eccome.
Con grazia, con garbo, con rabbia, spazientiti
o guerreschi. Ma sono già alla fase di
scrematura, dalla superficie raccolgo
l'ultimo evidente bollore perchè
non scoppietti tradendo la fermentazione
che due mani, e solo due, ventilati cortili
del nord, hanno operato con grande
perizia, infilandomi a volte.
Eppure sono smesse tempesta ed
irrigazione: adesso è tempo per
l'ombelico e tutto il suo sud
di stare ad aspettare che cada
qualcosa, che so una stella,
o un fiocco, a questo punto
meglio una lama. Chè tutte
le finestre di cui mi hanno dotata
perchè ne rigurgitassi più vita,
sono sempre burroni in cui
si lanciano solo bei desideri,
tuffatori mortali. Ma il tintinnio
arriva ormai a stento.
Aspetterò ancora le nuvole,
e fingerò su di me l'ombra
della pelle che sa come vegliarti,
ma niente sarà più di quello spessore,
di quella trama. Resterò. Inutile.
Asciutta. Come lo stoppino che mai si imbeve.