Cinque Cento Settantaquattro
Tre piaghe dentro la stiva. L'ultima, Osanna,
bel Canyon di carne abituata ad essere uno,
urina da giorni generosa il suo pus,
blasfemo, profano, come uno sputo contro
il sagrato. Dicono intorno che tre bastioni
di buona sutura sanino in fretta qualsiasi
travaglio, che poi del parto c'è solo la
dolorosa movenza: dicono il tempo,
come l'oblio, siano cerotti di indubbia
valenza, importante è tenderli bene
sul mio Polifemo. Ma più consigliano
e più mi allago e da osso ad osso spesso
si ode una eco che trapana i tessuti con la
testa del bolide schizzato veloce. Aspetto,
paziento, il gong arriverà prima o poi
vestito da pace come la bandiera salvifica
della campana dopo la scuola. Eppure
ho più senno di tutti gli altri se penso,
convinta, che sarò gemella del salvadanaio
a cui tolsero incoscienti la benda: ovunque
mi aggirerò condurro' la mia perdita.
Tin, tin. Non lascio molliche, non monete,
nè gocce, orme nemmeno.
Non sono tubo, certo non falla.
Stillerò come chi inavvertitamente tagliato
non si cura del rammendo e secca
lodando quel giorno di trapasso e di lama.