Cinque Cento Trentacinque
Se non avesse vestito mia nonna,
mia nonna un mulo sfiancato
a Novembre smise il suo
carico e nemmeno tossiva più.
Io ero il gesso incartato di beije,
alla gonna tiravo i capelli sperando
mi desse contegno nel luogo
del dolore improvviso. La luce
una piovra nel singhiozzo
dei corridoi, hula hoop itterico
dalla scatola blu dell'obitorio
ci danzava sui piedi, i nostri
caldi: olè. Prezzoliamo la mano
che prima disincaglierà la bianca
creatura arenata nell'Ade che va
alla sera. Sfilati i tubicini dalle
vene come boccagli dal sub
che non gonfia le branchie.
Il pomeriggio era stato
così buono, sincero, che megera
quest'ora! Sui tavoli del Pesce
d'oro le squame del giorno feriale,
una donna, del fumo, la Costa
sbiadita dai tomi di pioggia,
più su le ginocchia di Agerola,
confine di muro sul mare.
E poi la nebbia, la veranda
dei limoneti, nera pernice,
lutto d'anticipo. Se non avesse
vestito mia nonna una mano
che sarà sempre più mamma
di me che sono soltanto una
gatta, se quella Croce non
fosse sul petto,
inanellata al capo ancora non
rigido tra i gigli ed il disinfettante
dei lunedì di Cava, sui pavimenti
bobine delle notti di reni fallaci, oggi
Adele è di turno, la signora della
203 è impazzita, se quella Croce
lei non l'avesse issata sul Golgota
del petto ansimante, certo non
l'avrebbe mai presa nel vespro,
nuova reposizione, il Cristo
s'invola, la Croce ci resta a
reliquia del Novembre che
finisce in per sempre, come un suo bacio.