Cinque Cento Trentasei

Lui è la coda, o io sono
il cane. Razza discutibile.
Ci provo e dannatamente
riprovo a venire via dalla bruma,
a scollarmi l'appendice, scrollatina
di me: si fa così col prurito molesto,
con la pioggia quando è zavorra.
Ma poi è giovedì o è sabato e
devo voltarmi, controllare da
dove sono venuta e quanta
strada non ho battuto, ma poi
basta una sera che dice
il mio nome senza attenzione
ed eccolo lì. Lui. Ancora.
Il per sempre, il posticcio,
l'applique, l'addendo, la
scusa, l'addetto. 
Dovunque mi trascini,
trascino il suo resto, il
mio continuo, continuo
giovane, di un pò di mesi,
ma corposo come se mi
fosse stato costruito
addosso nella culla
dove sverminavo l'infanzia.
Dunque, mi dite, che senso
ha ormai la fuga?
Non si va lontano, il lontano
è una posa, un atto, un trafiletto
nel sangue di tutte le mietiture
e delle parole.  Alla carne non
è concesso gemmare con la
miracolosa faccenda delle meduse:
la carne va incisa,  molestata
dalla lama e separata. La doglia,
il calvario del ventre sminato,
divaricazione: benedetto rigetto
di ciò che era entrato.
L'attesa, lotteria dei dettagli,
la spinta, poi urla.
E' da ciò che viene che si
riconosce la forma di chi ha dato.
Ed  il suo inizio.