Cinque Cento Trentotto

Forse è nelle tinture, diserbanti
al cuoio che disbosca l'anno
venuto dopo l'anno che pareva
più giusto. O forse è nelle schiene,
tra i nodi ed i nervi delle dorsali, o giù
verso il coccige, lanterna che rischiara
l'origine dell'antico, indimenticato carponare.
Magari è nelle mascelle,  nei ritmi
della mandibola, salse, digrignare:
io osservo la gente e mi chiedo dove
stia allegata la sacca di coraggio fino
all'orlo che a me sempre sfugge o
quale passaggio mi abbia sfornita
dell'inchiostro per latitare dai
fallimenti. Come sempre il grande
tiglio mi dirà cosa fare: lì sedeva
mio nonno, a tre anni dalla mia
prima parola, nelle estati di
bottega in primina, con la sedia,
stuzzicadenti nell'unico boccone
di ombra, guard rail sulla
lisca delle formiche, assicurata al suo  muro,
osso sacro del Duomo.
Nonno di poche parole e
grigia flanella, e grigi capelli
e grigi cotoni lì a riparo fino
a quando non urgeva il taglio,
la chierica austera della creatura
verticale contro la pepata della
verde processionaria.
Si, il tiglio mi dirà come
sempre l'inizio o la fine di questa,
di quella stagione col suo starnazzare
pruriti innocenti e qualche  starnuto dopo,
con l'irrigidirsi spettrale in cento rughe di rami.