Cinque Cento Venti
I sassi delle facciate dicono
il sesso dei muri, storiche testuggini
sull'attenti dei viali. La treccia dei
glicini nasconde cicatrici: affondi
di denti meccanici e cantieri che
sloggiano forme per inserire
nuovi inquilini, incassi industriosi,
affissioni di porte. Tutta questa
costola di costa atterrata sulle prime
infradito, iridiscente ramarro tatuato
dalla borchiatura degli ulivi, tutto
questo spazio bugiardo quanto
la libertà di una gabbia. E qui
mi aggiro, sbranato il domatore,
afa e numeri clichè per il pubblico
delle venti costumato nelle
sete da aperitivo, nelle sedie
da assaggio, box del vespro,
tra le lune di agrumi annegate
d'arancio e le intelaiature di zucchero
sui bicchieri, bianca granulazione.
E dai tavoli il solito brioso cicaleccio
caramellato, scampanellio di mucche
nel quadrangolare delle aiuole
guard rail e l'incrocio degli scongiuri
e delle formule da rito spazzolato
all'improvviso dall'intrusione tubante
dei piccioni, uno schiaffo grigio
svela la polvere in ascensione sull'argano piumato.