De’ romiti
Negli alti gioghi del nostro Appennino,
frati siàno e romiti;
or qui venuti in questa città siàno,
imperò che ogni astrolago e ’ndovino
v’han tutti sbigottiti
(secondo che da molti inteso abbiàno)
che un tempo orrendo e strano
minaccia a ogni terra
peste, diluvio e guerra,
fulgor, tempeste, tremuoti e rovine,
come se già del mondo fussi fine.
E voglion sopratutto che le stelle
influssin con tant’acque,
che ’l mondo tutto quanto si ricuopra.
Per questo, donne graziose e belle,
se mai servir vi piacque,
alcuna cosa che vi sia di sopra;
nessuna se ne scuopra
per farci alcun riparo;
però che ’l cielo è chiaro
e ci promette un lieto carnovale:
ma chiunque crede apporsi, dice male.
Fien l’acque il pianto di qualunche muore
per voi, o donne elette;
i tremuoti, rovine e loro affanno,
le tempeste e le guerre fien d’amore:
i fulgori e saette
sieno i vostri occhi, che morir gli fanno.
Non temete altro danno,
e fia quel ch’esser suole.
Il ciel salvar ci vuole:
e poi, chi vede il diavol daddovero,
lo vede con men corna e manco nero.
Ma pur, se ’l ciel volessi vendicare
e’ mortai falli e l’onte,
e che l’umana prole andassi al fondo,
di nuovo il solar carro farìe dare
ne le man di Fetonte,
perché venisse ad abbruciare il mondo.
Pertanto, Iddio giocondo
da l’acqua v’assicura:
al fuoco abbiate cura.
Questo iudizio molto più ci affanna,
se secondo il fallire il ciel condanna.
Pur, se credessi a quegli van romori,
venitene con noi
sopra la cima de’ nostri alti sassi;
quivi farete i vostri romitori,
veggendo piover poi
e allagar per tutti i luoghi bassi;
dove buon tempo fassi quanto in ogni altro loco:
e curerenci poco
del piover; ché chi fia lassù condotto,
l’acqua non temerà che gli fia sotto.