Disadorna
Di ghiaccio, madre, questo vestibolo.
L’umore pare sordo e vuoto,
anello bianco senza dita
la piroetta candida dell’alba.
Mentre mi conto qui a solfeggio
si amano la vergine e i pesci
e tutto è a galla che non scoppia
stordimento precoce di una sera
cornice sugli scritti.
Io, addobbata come una lampada
o come un albero morto, mi annego
‐ davvero dovrei ‐
dentro quell’unica onda imperfetta
mentre il mare mi asciuga,
i piedi sulla soglia.
Troppa rabbia che brucia, troppi denti
per masticare
e le strade tirano dritte, senza lasciarmi
gocce.
Come mi ascolto, madre,
se ognitempo è una pentola zittita,
come posso lavare ad una ad una le mie dita,
correggere il ricalco alla fretta di una tenda
smossa.
Tutto è fermo, impossibile di odori
senza l’appiglio della favola cantata.
E’ mezzanotte, madre,
corrono nuvole e mi lamentano, gloriose,
quest’assenza.
Io vago morta piccola, sconnessa alle ginocchia.
C’è tanto bene tra le pietre calve, c’è tanto bene.
Sui rivoli arrossati di tramonti, nell’oasi di una pianta china.
Sotto la scarpa veleggia una parola, una soltanto.
Enorme di tutto questo bene, che esonda e mi è così.
Distante.
25/01/2007