Due Cento quarantacinque
Vorrei sapere se c'è una chiave che dia nome
a questo mio male che non duole, che non sanguina,
non inturgidisce, non infetta, non sporca, non taglia,
non brucia, non escoria, non abrade.Io credevo
che esistesse un modo per ottenerne lo sfrido,
la cucitura secca di punti onesti aggrappati ai
lembi violati, che dalla vita al bacino venisse
una sola sutura a sanare il boato, l'orco,
la botola. Ma niente è arrivato a prelevarmi
la spina, a sondarmi il divario, a frenarmi la
ressa di matrici di nuove sventure, niente mi
ha avuta intatta su più di un letto.
Così mi tengo la curva che mi fa storpia all'impiedi,
la copro con un tetto di carne la creatura di uncini
e parole e per quanto ammali è mia ed è mia
nella foggia, nella mano, nel farlo, nel dirlo,
nel tacerlo. Io sono ciò che mi affligge e si
propaga con la liquida insolenza del contagio
che non conosce altre case
all'infuori della mia degenza.