Due Cento sessantasei
Non riesco ad invecchiare, non è magia,
piuttosto una bestemmia. Dovrei avere un
nido di renne qui, al centro del capo, un fiotto
di neve, uno sputo di bianco cemento da
tumulare con oppurtune dosi di frigide
catramature, dovrei già esibire un bargiglio
che canti alle quattro il mio congedo
dal ventennal dell'imperizia. E invece no!
La mia infiorescenza gode di ottima
salute, scura come quanto mi tirarono
fuori dal becco del mondo. Avessero almeno
saputo quanto sarebbe stata bacata la
sorte! Magari mi avrebbero respinta
all'interno a cercare un'ancora, un monile
con cui venire nuovamente alla vita, le
spalle protette da un patrono, da uno
sponsor e migliori agganci. La mia carne
sta attaccata alle ossa con un amplesso
di acciaio, a volte la scrollo, mi chiedo se
può avere mai senso tanta cocciuta, giovanile
resistenza per un corpo che è come una
fossa. In cui tutto può cadere se distratto,
ma niente più ne esce, una volta gabbato.
Posso essere trappola o sparizione improvvisa,
non certo zolla, cordoglio non germoglio,
non nutrice. In me si sta stesi, ci si alza
raramente: con il letto ho in comune
la posa, solo che io duro più a lungo,
convinta. Io sono il sonno a cui manca
la spinta contraria. Così simile alla fine
è la pausa più grassa.