Due Cento tre
So di ossa stese sul letto senza annusarsi,
solo per non vacillare in licenza di peso, so di pelli
che hanno pigiato la notte e lavorato a spartirsi
l'insonnia, ma senza cullarsi. Gracidio che espande,
dilatando in circo le vecchie abrasioni. Io so come
si muore ostinando il respiro, il tiro alla fune del
disincanto, un trapezio al cui esercizio nessuno
sarà puntuale, si guarda lo scempio della
caduta, domani il varo di un'altra sventura.
So di terre che non hanno approdi, di naufragi
senza inversioni, di crocifissioni a cui mancavano
l'accusa, la corona, le spine. So tutto questo, ma
non ti basta. Certo non ho fama di resistenza, forse
neanche di lotta, tutto ciò che mi somiglia sta
dritto per un giorno e poi lo si piange orizzontale.
Tu mi vorresti argano ed organo, forte come la
portata del vento a gennaio e santa nei miei accordi.
Ma io pecco di buio, puoi anche restare in piedi,
non fingerti ostacolo: io so che oltre le mie spalle
dorme un gigante dagli occhi affamati e la bocca
già miope. Quando preparo il suo pasto scarto
con attenzione la prelibatezza dei morsi ma poi
sbaglio condotta: mescolo parole senza salarle.
A chi vuoi che serva una bella ed inutile vista sul male.