Due Cento uno
Faccio parole come vestiti: maniche, orpelli, tasche e tutto l'occorrente.
La mia sartoria è audace di inchiostri, ognuno ha la sua foggia,
la sua prescelta e calza, calca, tenta: la pagina è il camerino.
Tiro pieghe a regola d'arte, i miei orli sono famosi da qui
all'asola dopo, fornisco bottoni per punti e punti per spille, ogni capo
è di tendenza, io studio le more della moda, e quanto ritarda il suo finimento.
Ricordo, apostrofo, taglio, sfrondo, balbetto. La taglia è quasi sempre
quella giusta, a chi spende di più,
regalo in omaggio due brevi e una linea.
Dove ho imparato a cucirle? Ah, non saprei.
Mia nonna non mi ha mai legato la mano, nonostante la sinistra
arraffasse il posto alla destra ogni volta; a scuola mi dicevano
strana, la testa impiccata al rigo, un presepe fra parentesi.
Il mestiere mi è venuto di notte, come un'influenza in pellegrinaggio
verso la casa più debole: si è presa la mia carne, la penna
mi ha circoncisa. Adesso vi mostro i miei ultimi modelli, scommettiamo
troverete ciò che fa a caso vostro? Sono io a non avere più niente, sono glabra
ogni volta che mi dite, un fagiano spiumato, vergine davanti alla voce.
Vi ho dato tutto, le stoffe già logore non vanno buttate, daranno altre
stoffe, i ritagli al fuoco, le lettere fanno calore.
Ed io sarò ancora nuda, una pelle di o basterà a coprirmi, disegnerò
stormi e alfabeti, vi vedrò sfilare con le mie parole sulle braccia,
sulla pancia, sulla bocca.
Che orgoglio di madre sarò quando le molli gambette
della mia prole scriveranno il primo passo.