I Ricci
E la Luna, con voce ammaliante, chiese alle chiome degli olivastri dalle argentee foglie: “Amici fronzuti che riflettete la mia luce con mobile grazia, scostate un poco il vostro fogliame, sì che anch’io li possa scorgere, giacché ne odo solo i piani mormorii”.
Ed i rami tosto si fletterono, cedendo benevolmente alla brezza marina per schiudere un arboreo sipario sulla rada macchia riarsa, ove la vocina preoccupata della volpe stava sussurrando: “Fate più piano voi, o vi sentiranno!”, ed aggiunse, fissandoli attenta: “Non v’illudiate di esser troppo piccoli od insignificanti per loro. Alcuni di essi apprezzano le vostre dolci carnine al pari mio”.
“Che ci possiamo fare?”, replicò il più anziano della famigliola dei ricci. “Che ci possiamo fare?”, ripeté, “Se non abbiamo la tua vista, volpe? Noi ci regoliamo col fiuto che ci dirige verso una crosta di pane ammuffito o che ci accosta al sentore dell’acqua. Dobbiamo pur fiutare, dunque! Ma che? Forse è la paura che ti fa latrare? Le tue polpe non saranno gradite, eppure finiscono a seccare al sole più pelli di volpe che di ricci.”
“Agnelli”, lo corresse la spinosa, che sopraggiungeva, sbuffando, col suo passo di conserva. “Il proverbio dice pelli di agnelli, non di ricci. Quanto a te comunque, ladra di galline, ti ho ben capito sai? Vedi di non farti venire l’acquolina in bocca per i miei apparenti parenti, se non vuoi che t’appunti un aculeo sul naso, e gira al largo, perché non sopporto chi crede d’essere più furbo degli altri, via!”, e si gonfiò emettendo quel grido talmente umano che fa sussultare nelle tenebre i bracconieri.
La volpe, che tanto aveva bell’e visto che di ciccia morta non c’era nulla e che quella viva s’era inaspettatamente procurata una temibile guardiana, li smusettò e, alzata la coda, mostrò le terga allontanandosi sdegnosa.
“Huf!”, sbuffò il grosso istrice. “Non l’ho mai potuta digerire.”
“Invece lei ti digerirebbe tanto volentieri, se potesse”, ridacchiò riconoscente mamma riccia a bocca piena.
“Deve solo provarci”, esclamò il bellicoso roditore rizzando le picche.
“Sentite, sentite che lieve zampettare e ciottolare. Arrivano i caprioli!”, vociò entusiasmato il più giovane della famigliola, sputacchiando pezzetti di pera acerba con cui si cimentava da un pezzo.
“Presto, presto ragazzi!”, li esortò la madre. “Mangiate il popone prima che quei divoratori se lo bevano!”.
Difatti, appena giunti, i caprioli si gettarono sulle bucce dei gustosi frutti, addentandoli ad un estremità e succhiandoli avidamente, fino a che l’estremità opposta non dispariva all’interno delle loro boccucce dipinte.
“Che vi dicevo?”, sussurrò la riccia, e poi con un fil di voce: “Forza con le mandibole piccini miei!”.
“Salute a tutti voi piccoli abitanti dei cespugli”, esordì il maschio dei caprioli.
Scarsi grugniti si levarono in replica dalla famelica folla intenta all’opera.
“Serata proficua, sento…”, s’azzardò il cornuto, tentando d’indurre i rivali ad un diverso uso delle fauci, nella debole speranza che gli lasciassero qualcosa. Un ostinato silenzio fu l’unica risposta che riuscì ad ottenere, inframezzato unicamente da scricchiolii e rosicchiamenti.
“Già, già. Perché spezzare l’incanto dei suoni della melodia notturna? Oltre che quelli pasturali?”, insinuò a mezza voce.
Mamma riccia lo fulminò con lo sguardo su cui si rifletteva il bagliore lunare, ma si guardò bene dal cadere nel tranello e non cessò un attimo di sgranare.
“Dovete pur comprenderci, caro Signor Capriolo”, si giustificò il porcospino la cui imponenza e forza gli conferivano maggiore dignità, o almeno così credeva, tanto che si sentì in dovere di spiegare: “Se scendono dal poggio i cinghiali, si metteranno a grufolare ed a rivoltare ed a pesticciare, e a noi cosa rimarrà? Dovranno, i cari ricciottini, anzi stare ben attenti a non venir calpestati o addirittura scambiati per una succulenta melanzana.”
“Comprendo perfettamente”, acconsentì liberalmente il capriolo, “d’altronde anche noi ce li troviamo sempre tra gli zoccoli, razza invadente e sgraziata, invero. Ma per stasera non credo che digraderanno al piano, giacché Loro hanno portato molti cocomeri per governarli a sazietà nell’uliveto alto, e li abbiamo scorti tutti lì riuniti a strafogarsi”.
“Per lo meno”, sibilò velenosa la puntuta matriarca, “avete condotto con voi anche una buona nuova…”, e scrutò di malanimo la cucciolata maculata.
Intanto, un capretto s’era accostato ad un ricciotto e si guatavano, avvicinandosi a passettini studiati all’ultima cipolla rimasta. E mentre s’impegnavano a modulare maldestri tentativi di rugli, una risata scrosciò sonora dall’oscurità, facendo impietrire ogni creatura. Loro erano lì, lì vicini: li avevano forse sentiti?
“Son venuti a prenderci”, squittì terrorizzata mamma capriola.
“No!”, la rassicurò il marito.
“No”, confermò la spinosa, “in tal caso avrebbero riso dopo e non prima. Non son qui per noi.”
“E perché ridono?”, si fece coraggio a chiedere il caprioletto che all’udire il terrifico suono s’era stretto al riccio col quale contendeva fino a poco prima l’avanzo.
“Mah…”, rispose dopo lunga meditazione il genitore.
“Mah?!”, ribadì il grosso aculeato, sentendosi di aggiungere con un tono di saggezza mista ad incredulità: “E chi può dirlo?”.
“Su, su, al lavoro. Mangiate! Non ci riguarda!”, dissipò ogni tensione mamma riccia dimostrando un ammirevole senso pratico, e tuffò il grugno nella fetta di cocomero giusto ai piedi del capofamiglia dei caprioli, ancora assorto nei propri pensieri causa dell’imperdonabile quanto irrimediabile distrazione.
“Evidentemente”, considerò dopo essersene reso conto, “per noi caprioli Loro son sempre danniferi, in un modo o nell’altro…”.
“E’ quel che Loro dicono di voi”, gli fece notare la spinosa.
“Già…”, sospirò dolorosamente mamma capriola, “già”.
“Però, dopo tutto”, sorrise babbo riccio, “i loro avanzi non son niente male. Stiamo un po’ a vedere!”
“E buon appetito”, concluse la Luna liberando le fogliute fronde dalla delicata ma ferma presa del vento.
“Felice notte!”, augurò questi di rimando agli alberi, alle bestie ed anche a Loro.