Il clarinettista (dedicata ad S.V.)
Arriva calmo,
ignaro del ritardo.
Lento il passo e fiero il portamento.
Non si guarda intorno:
non importa il pubblico,
ma ciò che deve dargli.
Delicato monta il suo strumento
occhi di luce sul suo viso,
sorriso lieve sulle sue labbra.
È pronto e sa che dovrà dare tutto
e tirar via dal clarinetto amato
non note, ma dolori o gioie,
non melodie ma essenze di emozioni.
Sa che tutto dovrà passare
dal suo cuore su fino alle labbra
e che anche le sue dita avranno un bel daffare.
Suona e chiude gli occhi:
non ha bisogno di vedere il pubblico,
ha imparato a suonare anche in solitudine
le sue nenie tormentate.
Suona e dimentica il mondo,
e sono le sue angosce ad accompagnar le note
e poi le sue paure,
finché non si dissolve ogni zavorra.
Finito il pezzo esce,
più leggero e più felice
di quando è giunto.
Sa che c’erano orecchie chiuse,
ma anche altre spalancate.
Sa dei cuori vuoti e striminziti
che non ha toccato,
ma conosce anche quelli grandi, gonfi e vivi,
pulsanti di tutte le emozioni che ha suonato.
Sa delle menti aperte
e degli occhi lucidi di emozione.
Lo sa.
Sa che gli applausi
‐ sottofondo della sua uscita ‐
in gran parte sono eco e imitazione,
ma non per questo apprezza meno
le mani sincere.
Adesso tutti a casa,
lo spettacolo è finito!
Chi può vada a sognare
le sue nenie o quelle dell’artista,
chi no dorma il suo sonno spento
e vuoto di colori.
E altrove riposa il clarinetto
e riposa il suonatore,
mezzo di arte che si rende viva
per risvegliare i sogni ed i sospiri.