Il senzatetto
Errabondo vagavo per le vie,
come campana stordita
dai colpi del batacchio.
I miei non erano invitanti rintocchi di festa,
ma scomodi scampanii di morte.
I passanti che incrociavo per la via
mi attraversavano come fossi aria,
ma aria putrida, malata,
quasi un castigo di Dio.
Dell’anima, dei sentimenti miei
a nessuno importava.
Nessuno avrebbe udito la mia storia.
Finché un giorno,
freddo come pochi,
un uomo, spinto dal figlio,
una coperta mi porse,
e lì capii che c’era ancora
qualcosa al mondo
per cui la vita
doveva essere vissuta.
Non è retorica se dico
che quel gesto
mi scaldò più di una bevanda calda.
Qualcuno si era accorto
del “fantasma”
in una terra
fatta di potenti e di aguzzini,
ma anche martiri e santi.
Con un po’ di carta e una penna,
un impegno presi con me stesso:
annotar le buone azioni
a me rivolte per provare che
l’umanità non era morta.
Ma un giorno, ahimè, ascesi al cielo,
e mi fu chiesto di mostrare
il mio taccuino improvvisato.
Il numero segnato
era assai basso
e ammettere dovetti la sconfitta:
più alta era la cifra dei buoni
che all’altro mondo stavano,
quello più in alto,
quello che ora mi ospitava.
I poveri di tasca, ma non di spirito,
avevano perso la partita
sulla terra.
Gli altri, invece,
avevano trionfato,
e tronfi si godevan la vittoria
mentre, tra motteggi e bagordi,
si ubriacavano al calice della vita.