Il Tramonto di Efesto
Il Sole era al tramonto ed uno spicchio di luce scaldava ancora la Fortezza d’Aiace ed i tetti delle case più alte arroccate intorno all’arce, e pareva che ogni tegola cercasse di trattenere quel tepore sotto di sé, come per ritardare il più possibile l’insinuante palpito presto diffuso dal notturno sospiro della marea.
I minuti trascorrevano più rapidi che durante il resto del giorno, come sempre avviene dopo e prima il crepuscolo, perciò Nello s’affrettava sulla via che costeggiava i monti, galoppando per rincorrere la fuggevole spera.
Ad un tratto arrestò la giumenta, giunto che fu di fronte alla sella posta tra la Torre del Rivolta e l’alto colle vicino. Là pareva che Efesto, il titanico fabbro, stesse versando in quell’immenso calderone naturale una colata d’oro brillante, il cui bagliore era talmente intenso da sbiancare persino lo scuro verde delle colline in ombra.
Dalla forma uscì, rotolando oltre i contigui poggi degradanti fino al piano, un disco d’oro rosso; un gioiello di sì fulgente bellezza da accecare chiunque osasse ammirarlo, giacché non si trattava di gemma forgiata da mani d’uomo e per vista d’uomo. Infatti, dopo la fugace visione, s’inabissò tra i flutti e disparve allo sguardo del mondo per diffondere la sua luce nelle fredde tenebre degli abissi, donando un superno conforto al divo ma intirizzito zio Posidone.
Gli uomini, che ne erano rimasti estasiati, si rimirarono, ma senza più scorgersi, poiché quel vuoto era stato improvvisamente colmato dal buio, e si sentirono soli.