Kingsland blues
Il sangue del tuo stesso sangue
tra le braccia sudate e sporche di tuo padre,
il caldo insopportabile nei campi di cotone dell’Arkansas
dove piegavi l’esile schiena di ragazzino
sognando una chitarra blu con la tracolla marrone
per dare suono a quelle parole
che già ti venivano fuori dal cuore indurito
dalla fatica e dal dolore.
E intanto il treno continuava a correre rotolando in curva
e tu ci salisti, senza pensarci due volte.
Memphis, Tennessee, e poi chissà,
lontano dalla piccola casa di Dyess,
dalla tua canna da pesca e dal ricordo di Jack,
dalla luna sul Mississipi
e dalla colpa che credevi di avere,
dall’amore che non ricevesti mai.
Inseguendo quelle maledette pastiglie bianche,
la bocca piccola e i capelli bruni di June,
per le arenas e le prigioni degli stati del Sud,
la tua voce bassa e potente
spiattellò senza controllo la libertà della miseria
di chi ha solo una 44 Magnum e un paio di tiri di coca,
poche lacrime quando le luci hanno perso il loro splendore
o una bottiglia vuota che qualcun altro ha bevuto per sbronzarsi.
La chitarra blu con la tracolla marrone imbracciata come un fucile,
il sorriso ammiccante e l’impermeabile nero,
il microfono acceso, il pubblico urla applaudendo,
"Hello, I’m Johnny Cash!"