Matti
“Ma credete veramente di essere pazzi? Davvero? Invece no, voi non siete più pazzi della media dei coglioni che vanno in giro per la strada, ve lo dico io!”
Randle lo ritrovo al solito bar, beve litri d’acqua, trangugia come chupiti tutto quel liquido e ogni tanto lo portano in ospedale.
io sono diverso da lui perché non riesco a bere un goccio, chi troppo chi nulla in questo oceano di parole al vento schiacciate da polveri sottili come sassi che precipitano dal cielo.
“dov’è casa tua?” chiedo, smarrito mi guarda, non risponde, oltre a bere velocemente cammina correndo, come quei pedoni che si buttano sugli scalini del passante in Piazzale Dateo svanendo nel buio cimiteriale del cemento.
non esistevano, allora, le tangenti, nel Corso abitavano Penelope, mia nonna la sarta e Alfredo, mio nonno con i suoi quattro bocchini, quattro pacchetti di nazionali al giorno.
ricordo una foresta di alberi, il verde sbirciava dentro le finestre e passava il tram, il 38, capolinea in piazza Axum, forse, non ricordo bene.
guardo fuori sparuti rami secchi come larici piangenti spelacchiati, non hanno il vestitino della festa, una fila desolata che costeggia il viale.
ripenso a Randle e al suo mondo d’acqua e di gazzosa, alle corse in ospedale, agli inutili colloqui con lo strizza di turno. “Almeno io ci ho provato, vacca troia, almeno io ci ho provato” mi risponde dopo aver nuovamente bevuto.
gli altri con i fili attaccati alle orecchie, sembrano delle autobombe in procinto di saltare in aria ma non esplodono, seminano mine nel complice e condiviso passeggio di gomitoli che si intrecciano in ragnatele sempre più fitte, l’aria non filtra più e i simpatici cavetti respirano l’afflato dell’affanno, dispersi tra dispersi, uguali tra uguali, i neri come i bianchi pennellando il grigio del presente,
volando tutti sul nido del cuculo.