Potevo io essere re

La volta ch’aspettavo il vento
in alba d’insistente pioggia,
successe un vero finimondo
e stavo diventando quasi re.

Gli alberi si scansarono
a passi indietro d’elefante.
Le nuvole, irriconoscibili,
non più in libera caduta.

Il fango s’asciugò veloce
e fece di sé piastrelle in luce.
Il mare, incredibile il mio mare,
sempre azzurro dietro i vetri.

Da solo nella nuova terra,
i flosculi di cardo a sentinella,
equilibrista improvvisato
attesi quindi ch’arrivasse il vento.

Al primo alito da Nord,
fronte al cielo, offrii la gola
per rompere di netto le sue corde,
noiose fabbriche di parole belle.

Al gelido schiaffo successivo,
protèsi, da condannato a morte,
gli occhi tutti spalancati
per farli rasoiare a sangue.

Così ‐ pensavo ‐ finalmente
quegli occhi avrebbero perduto
la vista amara dei malanni,
perfino quella dei potenti.

All’ultima raffica tagliente
avevo già buttato la camicia
per fare in modo che nudo nudo
il cuore mio fosse colpito.

Col cuore,
l’infinita rabbia per il buon mondo che non c’è...
Nel cuore,
l’ingenua tenerezza per il mondo che sta qui...

Ma ritornò l’odiata calma.
Il sole, adesso, sgomitava forte
tra plumbee macchie ancora
bruciando l’ultimo mio sogno.

Le onde formarono plotoni
attenti all’assoluta pace attorno.
I boschi, ai bordi di collina nuova,
scrollarono la brina dalle chiome.

Non so se quella volta
fu l’unica occasione della vita,
quel treno puntualmente perso
all’ultima stazione del destino.

L’aria, l’acqua e la terra
mi corteggiarono incalzanti
per dare il loro benvenuto
al fuoco che tenevo dentro.

Governatore improvvisato,
potevo io essere re
ma senza scettro né corona
il cuore tutto mi ripresi.

Anno di stesura 2005
Mensile Il Saggio n.158 Maggio/2009 All. Speciale Poesia