Quattro Cento sessanta
Mercoledì che non è stato grasso e non è stato santo, solo
dispari e sfortunato. Tondo furfantello imbucato nella settimana
insonne a prendere le misure del mio lato buono, lugubre
dimestichezza al destino orizzontale che è di tutte le
creature già svezzate. Mi sono morte tante cose, stessa
data: a volte di mercoledì, a volte di domenica.
Candele più che candeline, il mio genetliaco è
l'esequie meglio eseguita. Fiori e cenere sui
binari di Pompei, fiori e cenere nei corridoi
al neon della grigia torre degli ecografi e dei
tracciati. Ho messo gli anni come spilli, io sono
la bambolina della maledizione su cui scocca
il dardo con l'acutezza d'acciaio di una fiocina
nel viscido dorso del pescato. E non mi paro
il fianco, aspetto con la posa inerme
del bersaglio che tutto torni a ricompormi
in questa scena: fra i riccioli cerco l'indizio
del dolore che il nuovo inserto dovrebbe darmi.
Ma è tutto buio, del bianco non vi è mai
odore: avrò sempre capelli d'ebano e schiena canuta.