Quattro Cento sessantacinque
Per te sono malata. Eppure tu stessa mi
hai sputata dalla cervice del tuo cranio
meridionale trenta e più anni fa.
Il collo delle bottiglie reca sempre
l'impronta di ciò che mesce ma forse ti
acquietava sapere che le ossa erano
ben disposte ed in forze, che due
erano le gambe e due le braccia ed
il cuore incassato alla sua scrivania,
gli occhi abili e di incredibile, imprevedibile
colore, il respiro caldo e regolare.
Credevi finissero lì gli inghippi,
gli intoppi. Cosi che adesso ti chiedi
cosa mi abbia contagiata a tal
punto da ammalarmi da sana e
quale mistura si è fusa al dosaggio
perfetto dei tuoi valori e della tua
salubre mammezza. O quale veleno
si sia imboscato nel tuo latte,
infilato nella mammella e
lì abbia covato per anni, perniciosa
incubazione, liquido travestito che
i miei denti non filtrarono e la suzione
avidamente assimilò. Si, sono malata.
Sono malata come tutti i poeti.
Che si tagliano e medicano con
la lama stessa, e poi, sanguinando
di più, ancora accostano dolore
al dolorante. Perciò ti dico: non
stremarti, non affannarti, nè
dannarti per la colpa del mio
sangue inverso, della dissolutezza
con cui amo questo mestiere senza lavoro.
NOn puoi impedirmi l'amore per il
degente che, gemello nel mio stesso
male, con me fraziona flebo di inchiostro,
palliativo in odore di seppia, e con cui
condivido patologia e referto. Non puoi
correggermi da questo affanno che mi da gioia.
Nè guarirmi cercando di farmi somigliare
al mondo. Perchè io voglio zoppicare
e farlo ancora di più nella standing
ovation del senso comune e questo
difetto con cui mi trascino
è il mio saggio di volo.