Quattro Cento sessantanove

Hanno ordinato i fili, indegli prevosti
votati senza vocazione al ludico
impiego di sbrogliare la matassa.
Giallo con il giallo, rosso che
bacia il rosso: eppure qualcosa
ancora non quadra, l'impulso
soccombe dopo il primo incoraggiante
ma debole fulgore.  Allora ricominciano:
dama di tentativi senza voglia.
Uno sull'altro a mangiare il difetto,
ad aspirare la preoccupante
tumescenza. Questo va qui,
quello al suo posto, canile
per gatti,  fusa di ribellioni
senza successo.  Hanno investito
in scommesse  sul parassita del
baccello in cui mi attardo :
dall'esterno viene sempre il
virus che, respirando, invoglia
a respirarlo.  Nomi e conseguenze,
verità e deduzioni . Io intanto
invecchio, incattivita dalla  mia
stessa buona disposizione a crescere
e perdonare le ali che ancora
scalciano e non sono riconosciute
come tali.  Perchè non hanno piedi,
non un cordone, semmai una cordata
di piume con cui saprei meglio di
chiunque altro il mio mestiere.
Bisogna essere madri di ciò
che vuole il mondo: ma è
proprio questo il mio bambino, un
bolo informe e senza sesso che
dal mio pasto risucchia quanto
basta.  Non va curato niente,
nessun filo rabboccato nè
tranciato,  non sono cavia
per paternali pesticidi
se dentro, misto al  sangue
ed alla carne, ho la prima dentizione
e fontanelle e rosei arti mollicci.
Ed un elenco di santi a cui votare il mio scritto.