Quattro Cento settantuno
Posso restituirti tutto, volendo.
Con grande, generoso sforzo.
Lo sfriso colato nel nostro ultimo
abbraccio, è ancora impilato
sul pavimento di una palafitta
di città. Con il piede, prima
di salutarti, sfollai in un angolo
le ceneri del veloce amplesso:
dubito sinceramente che
abbiano pulito. Chi ci girerà
intorno lo farà senza attenzione:
che vuoi ne sappiano di due paia
di braccia evase per qualche
ora alla galea della distanza?
Chi vuoi che sotto il getto della
felicità noti quell'ossicino in
polvere che è nostro?
Frutto del tuo ginocchio
contro il mio, della mia mano
ingabbiata nella tua, della
mia testa afferrrata dalla tua.
POsso restituirti tutto, dicevo.
La donna di servizio non conosce
la mia voce però, come tutti,
ricorda le tue spalle.
Al buio saprebbe riconoscerti:
alla luce nemmeno mi vedrebbe.
Ciò che posso renderti indietro
è quanto segue: una promessa,
le cavolaie venute a spiarci,
il microchip fra le ali di terra,
un nastro e qualche sillaba.
Altro non do. Se permetti,
mi tengo il resto, in fondo
abbiamo già sporcato abbastanza.
A cosa serve restituirsi tutto
se siamo ancora nostri?