Quattro Cento tre

La normalità il mio ghetto, l'ordine l'aguzzino a cui tento di sottrarre le chiavi. Non conosco patibolo peggiore dell'insana acquiescenza al contegno: stare in fila, salutare, non sollevare la voce se disturba le urla intorno. Orlare, finire, preparare e sorridere, mai sbavare dal cornicione con un piede, mai sfuggire alla meccanica disposizione o sorprendere d'un balzo la sequenza . Ma se tutta la mia carne deraglia al tuo nome, non capisco l'obbediente ginocchiera merlettata di famiglia perfettamente stesa sulle sorde rotule del tavolo, il lucente spettegolare degli specchi, la frenesia delle spugne nella fossa argento della pentola di servizio  . Non capisco la muta stagionale dei cuscini e gli strofinacci sempre prodighi di confessioni a pavimento e bordi, il battesimo delle lenzuola. Io dovrei solo turbinare come una stella impazzita, gridare la mia scia abbagliante, tirare su in aria tutti gli occhi con uno spintone. E dimenticare come si incassa nella forma il ripieno, come si svuotano dall'autunno le grondaie. Invece ho indosso una divisa con il numero già impresso e sono io stessa che, condannata in fila al marchio, ne tengo inzuppato il timbro fra le fiamme.