Quattro Cento ventidue
Sono figlia di un dorso, gemmo dal dosso, una cunetta mi pastori' senza strazio da una curva curvassi in più di sessanta stagioni. Sono cresciuta all'ombra di un guscio che della testuggine ha il verso e la piega ma non il corredo, una zavorra aggrappata, fissata come uno scudo, artiglio chiuso, volta involuta, prognata applique, un mento sulle spalle, un promontorio come distorta guarnizione . Sono figlia del peso e dell'incombenza, dell'infortunio e dell'insolito, della protuberanza, dell'ascesso, della sporgenza, del tornante, dell'indicato dal dito. Rientro bene nel goffo bargiglio ossuto ed imbruttito, spuntato per fatica come un nevo, ma non peloso: calotta, covone. Io sono di quella stortura che sgorbiata dal retto incasso e deviata, con finto, incolpevole sgarbo nel difetto mi riconosce e somiglia.