Sei Cento Cinquantacinque
Quale stupido tributo volevo ti consegnai
mentre Gennaio infuriava, certo meno
turbolento di tutto il Gennaio precedente
in cui ero vestale di un sacro, composto,
omogeneo patto infantile.
Una pila di carne imbrigliata fra il pullover
e la finestra, il contenzioso del darsi
o meno farcita, inamidata della più
tenera, bianca delle paure.
Quale stupido, povero, bislacco
offertorio la mia professione di amore
nei tuoi confronti! Io, appena imburrata
di vita,un furetto, la lepre imbevuta
dei fari ‐ Parche sulla mezzadria
di montagna. Ed ero venuta così,
impreparata, infreddolita, con i piedi
infilati nelle scarpe come in un'armatura
di morte, muovevo una gamba e quella
stessa chiamava l'altra che ancora
esitava. Sotto il mare, il mare scacchiera
di Gennaio, le bandiere srotolate dal
vento, paraventi giramondo e multilingue,
il sole ‐ ghiaccio piantato come una boa
in mezzo alla strada, fra le strisce pedonali
ed una seicento rossa che strombazza
la follia del suo cocchiere. Ma io amo! ‐mi
dicevo ‐ ed il mio amore mi fa da traino
e sono tutta dietro questo aquilone che
mi cinge i fianchi e dal seno scopre
le ginocchia. Forse perfino si accorge
della brulla regione che ancora non
ha deposto agli armenti la finitura
con cui avvicendare, come d'abitudine
umana, alle ossa già stanche nuove,
fresche giunture. Quale stupido
tributo volevo tributarti, altero
Giove veloce più dell'agile Mercurio.
Io là irretita sulle coperte di altri,
fra giochi adulti.
Con tutto il mio mondo pret a porter
stretto in una borsa, marsupiale
sporco di chewingum a cui,
di nascosto da te, sussurro:
" Ssssh! Non dirgli chi sono"