Sei Cento Quarantaquattro
La stazione è ancora treni, la
ola dei palazzi in altero convegno,
" Ok Computer" manda bagliori
color ufficio dall'angolo con i parcheggi.
Se un Mario arriva con la borsa tronfia,
un altro scende sottile più di un filo
d'acqua; io non conosco il rumore
delle rotaie, ma so come le hai
intese nei tuoi via vai, tu portavi
neve in riva al mare ed il mare,
per punirti, ti portava via me.
La porta sta socchiusa come allora:
il " Privato" è un cave canem a cui
dovevo piegare il collo, ma come
spesso accade agli indecisi, me
compresa e bandierina, ho sfidato
l'apertura, un'Idra abbaia, un'Idra
muore, ed il bocchettone lussurioso,
la boccia che trasudava olio.
E madida del gran peccato,
ho cercato, una volta uscita,
di ripulirmi la schiena, lì dove
forse era più carne la mia
propensione al volo.
La stazione è ancora treni, bisce
grigie e d'amaranto, risalgono
dal mestruo caldo del sud e
vanno verso la cerebralità
dei portici, delle torri, di tutti i nord.
Lì dove tutto è meccanismo, fabbrica
e pedali alla domenica, lì dove
l'onda è la pagnotta del weekend.
La stazione è ancora treni e le
tue gambe impagliate a bordo
città, hanno percorso un tratto
della mia prima vita: laboratorio
e geografia, statino, lode e
promozione. Ma adesso che resti
al cuore della molla che ti schizzò
da queste parti, vorrei sentissi
la mia felicità traslocata dagli scambi,
dal ritardo, dalle chiome separate
o ladre o dalla stanza, alcova spia.
Ho affittato un corpo un tempo, restio
sigillo, un mulo, una cassa: felicità
è che non s'apra subito per scoprirsi
semplice e mai abbastanza da dirsi al freddo.