Sei Cento Settantaquattro
Ho fatto un sogno, un sogno
rugiada, alambicco, una placentina
sturata bene dal fagottino, sognato
presto, all'oretta ‐missile che dalla
fonderia del buio ti raffredda al
giorno, non di lunedì, il mio sogno
tutto uguale al papà mercoledì.
Tu eri in teca come un Vishnù,
murato ed occultato, retto nella
pancia di una mansarda mai vista,
casa sconosciuta, e tutta realizzata
in su.Dietro le tue spalle un bollitore‐
guscio, una caldaia, un porro bianco,
ti stava a pennello,
tipo Invicta da lumaca, equipaggiamento
dell'astronauta nel benedetto dì
dell'allunaggio. Io ti facevo un segno,
uno di quelli sciocchi che si fanno
quando si commette una marachella,
un tranellino ruba biscotti, smorfia
aerea nella foto di fine anno,e tu
facevi su o giù, a seconda del
mio nascondino telecomando.
Ti tenevo là, e di riserva, come
si tengono erba cipollina, timo
e curcuma, comprati, erano in
lista.Di quelle cose che apri
la bocca al mostro pensile
e ti dici serena se stanno buone
in panchina ad esalare il loro
alito millefiori.
E tu pistone, infiorescenza,
venivi su al mio richiamo per
poi sparire se la situazione era crac.
Ho fatto un sogno, ti tenevo
lì, non pronto all'uso, di proprietà.
Ma tu non sei se non dei sogni,
dei morticini che non hanno nome,
solo parvenza e son vestiti
da postini, da corridori,
da fresie o da aquiloni.