Sei Cento Settantasei
La bugia regge appena nella
sera che miagola fra l'ombelico
flanella e la sterzate del vento,
manovrina acconciatrice che
fa dal piatto scirocco una quiche
di tramontana. Ti ho scusato
nel sonno: sai quando si parla
e si trema contemporaneamente
con la bocca schiusa come il
lenzuolino di bava dal sedere
della lumaca? Ti ho scusato,
aspettato, compreso, poi ho
riso. Perchè io sono una sorpresa
imburrata da contegno, io sono
di merletto e di arance, e forse
sto meglio in piedi fra i fianchi
renosi di due otri nel netino
bollente, vicina di palmiformi
e barcucce sbucciate dai
porti indolenti. Io sono il pomeriggio
leone dietro il foro boario, un
balconcino esplosivo, incisivo
antisismico nella struttura ex latte.
La bugia regge un nonnulla.
Si, ho provato a mettermi la
tua faccia, i tuoi glutei, perfino
quel maglione srotolato dal ferro
furioso di una macchina nord,
ma non ti somiglierò mai.
Ho troppo sole nella gola,
tutto il ventre proiettato a
sud, afoso cannone, e della
nebbia ho ricordi confusi,
due, tre volte all'anno,
non più.
E mi dispiace.
Mi addolora questo
pomeriggio che mi porta
la verità come il conto
nella mano sudaticcia
di un cameriere ecrù.
Ho già pagato.
Io sono grido di gabbianella
e per quanto mi asciughi
il becco dal sale e a
te mi pieghi, apocrifa
lavanda senza apostoli,
mando sempre bagliori
di lancette e mezzogiorno.
Ovunque mi denudi compare,
macchia sempreverde, la
crosta nerastra che mi cucirono
sotto la pelle, marchio‐ tattoo‐tarda
di fabbrica deserto, encausto
al fianco sodo di una capessa bestiame.