Svestizione d'ingresso (autunno)
Svaligiate le stanze non è che polvere di limatura rossa a sconsacrare anche la luna alla sua terra, a restituire odore sulla caduta delle foglie
‐ i miei vestiti verdi abitano l’ombra e un’anta di giornali –
e si ripara il vento dietro promesse come note dietro l’impalcatura di un giorno di canzoni.
Sotto la neve ho già dimenticato gli stivali e tutta quanta la sua voce di brillante che mi scheggiava dall’inguine alla gola, che non mi dava aria da sporcare né un viottolo di rane perse a naufragare un grido.
Mentita e sola, io, seduta nell’occhio del ciclone.
Scoperchiati i mobili resta l’impronta al dito e un’onda di salmastro già venduta la porta che non cede prostrata sulla soglia ad accampare scuse per tutto il suo chiarore, l’androne sventolato dalla rapina azzurra di un fermo immagine filtrato sopra il mare
e io che cerco tra il letto e le rovine un gatto avvolto in solitudini stellari.
Sparite queste case in una danza, dentro il confine è sabbia che si solleva e preme a rivestire, periodica, il bordo di una riva amara.
E brilla, ai pescatori smemorati d’isole, che vanno.
12 agosto 2006