Tempo non più tempo
Quella sera l’aria era umida, ed un caliginoso velo perlaceo s’era sollevato dalle acque illanguidendo il mondo.
I grilli grillavano debolmente, come se la serena avesse inceppato le loro ali, quando, d’improvviso, rivolgendosi al mastio della Fortezza, la Luna Piena principiò: “Ma ti ricordi di quante volte io, con la mia luce, ti ho salvato dall’inatteso assalto dei pirati, facendo brillare di lungi le loro armi e biancheggiare le vele delle fuste, sì che i tuoi custodi potessero guarnirti approntandoti per la difesa?”.
“E come potrei scordare gli anni della mia giovinezza, in cui gli uomini ancora mi abitavano e tenevano a me?”, scricchiolarono le vecchie mura smerlate, sospirando: “Ma, oramai…”.
“Ormai i corsari ci assalgono di giorno”, prese a dire la Torre Campanaria, “e solo la mia luce, la Luce della Fede, può portare ancora la salvezza. Non la tua algida, o Luna, né quella appannata della tua pristina gloria, o Forte”.
“E quale mai salvezza porti, o ricetto di corvi, se io non soffio per diffondere il suono delle tue campane?”, lo rimbeccò il tracotante Scirocco di vagliatura, e seguitò: “Io, io solo posso propagare il tuo richiamo, o soffocarlo a mio piacere!”.
“Ma cosa vuoi soffocare tu?”, lo ripresero le più alte foglie delle puntute palme. “Cosa pretendi di diffondere o rintuzzare, tu che ci fai vibrare appena, strappandoci un sussulto incapace, perfino, di svegliare le cicale? Se ti sentisse tuo fratello Ponente o tua sorella Tramontana, loro sì, che ti mozzerebbero il respiro!”.
“Se lo desidero, io posso sbuffare fino a spezzarvi!”, protestò stizzito il vento e si gonfiò e si tese, ma l’unico sconquasso che ottenne tra quelle fronde assomigliò, piuttosto, a una risata, un sonoro sberleffo saturo di scherno e salsedine.
Allora, constata con amarezza la propria impotenza, si placò del tutto col perfido intento di far gocciolare la salsa guazza lungo le scanalature dei tronchi e dei rami di tutte le piante, tramando che se l’aria non lo poteva, l’acqua avrebbe provveduto ad asfissiarle. Invece, la vegetazione conosceva già il morso della salsedine e se ne era mitridatizzata, così che non vi badò punto o quasi.
“Eppure, erano bei tempi”, sospirò la Luna.
“Quali?”, chiese il Campanile.
“Come quali?”, gli fece eco l’astro lucente. “Ma quelli in cui le scolte percorrevano gli spalti in largo e in lungo e miravano me, bramando il loro amore ravvolto in calde coltri, oppure…. E quelli in cui le volute dell’incenso salivano solenni a profumare i tuoi batocchi per mischiarsi e soccombere presto ai molti fragranti aromi delle notti olezzanti. Non le rammenti forse più?”.
“Be’, sì, se mi sforzo, mi pare…. Ma si tratta di tanto tempo fa”.
“Tanto tempo”, ripeté il Fortilizio.
“Troppo tempo”, frusciarono le palme.
“Adesso, basta. Tacete”, ingiunse grave il Mare, “o i mortali finiranno con l’udirvi”.
“Oh, no, no! Non v’è pericolo”, proclamarono tutti in coro, “da tempo, ormai, non intendono più il nostro idioma, sì che hanno del tutto cessato di porvi la minima attenzione. Tanto tempo.”
“Tacete comunque. E’ tempo. Non è più quel tempo. Non è ancora tempo. Lasciamo il fulgido Faro di guardia, ed il silenzio alla notte. E’ ora di acquietarsi.” E subito prese a sciacquare con la seducente nenia delle sue altalenanti onde, commovendo gli animi e placandoli, fondendoli in un unico profondo sospiro.
Sogni di isole sconosciute attraversarono le menti dei dormienti, appagandole d’una quieta beatitudine. Infine, il respiro del mare coprì ogni cosa, e la Luna tramontò, ma prima di eclissarsi mormorò: “Però, quelli, erano proprio bei tempi…”.