Tre Cento trentasei

Le esequie non hanno orario nè indirizzo, si dispensa dalla lettura, il manifesto è un palco a lutto che recita i pochi parenti affranti: l'indice ed il medio i più stretti, la conca della mano, la sinistra, che le abbracciò vergini, ancora sane.Alla bisogna si raccomanda non una prece ma una virgola, si spera accompagni le defunte al loro sonno.Le mie parole sono morte, ispirarono poi spirarono,il giorno è imprecisato. Dicono abbiano scontato una malattia lunga più dell'inferno. Hanno raccolto i loro grumi, lepidotteri strappati dalle ali, le ali sono tutte messe da parte, i vestiti si tengono ancora cari mentre macera la carne, i gusci sputati via dalle mie falangi. Metterò un cappello o un nastro intorno alla penna, sarà scuro, bordeaux come il vino, come un rubino. Una madre non dovrebbe vivere più del ripieno del proprio ventre, io invece sopravvivo e sono morta, uccisa dalla vita a cui ho dato vita, morirò in più occasioni. Adesso vado, ma non ho orario e non so quante saranno le bare per contenerle tutte. Hanno perso tanto inchiostro, brodo freddo nel piatto bianco.A chi ha parlato con loro nell'ultimo istante, hanno detto belle cose, anche di me.Ma io non c'ero, sono arrivata tardi, perciò adesso me le godo mute in fila verso l'inverno, e non piango. Perchè il mio dolore è sotto il palmo, dove ancora pungono nuovi e cento feti, ma come mi fosse morto il cane, quello che restava quando tutto andava, giuro, per carità, non ne voglio un altro.