Tre Cento trentasette

Mi truccano che i solchi sono ormai crepacci,le loro mani come teche, da qui vedono le ossa, li' giace l'infortunio. So di marmo, non di sposa, mi lucidano una volta per trovarmi opaca dove più han sparso il tempo. Una lastra e' la mia carne, se mi toccano, la gamba non differisce dal costato. Interrogano il mio ventre con affanno, una cabala marcia e' tutta la stanza sotto l'ombelico, le viscere sono provviste accumulate invano, il cuore la data di scadenza. Tardi, e' troppo tardi per annodarmi il velo, la parola che vorrei arriverà che non saprò più udirla. Che buffa cerimonia mi offrono a poche ore dall'ultimo guasto, tutti vigili perché niente sfugga agli operai di questo inganno, presto tappato il mio lamento conn lo stucco. Dopo, solo dopo si accorgono del sangue, e non dalla ferita, ma dal conguaglio di dolori da saldare, si passano imbarazzati il conto di ciò che , annerito, ricorda il giovane rubino.