Un immigrato
Gli edifici in quei quartieri d’immigrati sono un passo dall’autostrada.
Le tende plastiche con stampe economiche
nascondono ciò che è scuro dietro le finestre:
la macchina da cucire, le foto, la carta da sarto sul tavolino.
Il parasole sgualcito della terrazza è rivestito con gli stessi stampi.
Un uomo passando ha la stessa misura delle loro finestre,
e le finestre stesse sono di solito poco più larghe di bare.
Le strade non hanno altri echi. Non l'eco di rovine. Non l’eco di civiltà.
Le piante allineate sulle terrazze annuiscono con i loro rifugi di verde.
Qualunque incrinatura nell’asfalto è stata fatta
dalla colpa primitiva della prima mappa disegnata nel mondo,
i suoi contorni sottili, i suoi poteri confusi,
una carta geografica che dissolve le forme e nessuno più legge.
E questo è tutto in quei quartieri d’esilio a un passo dall’autostrada,
questo è la loro storia: più ci restano, più il loro mondo occupa minor spazio,
e in esso gli immigrati fanno le loro proprie mappe,
e in esse si sono tutti ridotti alla collettiva e inverosimile lingua del ricordo
che parla delle fonti luminose e parla delle mele
e tu da dove vieni, da quale regione, io conosco
quel lago lucente e anche le locande, il vino che si beve,
e quelle sono le montagne dove conservavo la mia fede.
Ma adesso sulla mappa, non si vede altro
che un’autostrada che li porta verso il nulla,
anche se sul retro c'è la veduta di un paese perduto,
una visione che a poco a poco si restringe nelle pupille,
di chi muore o di chi si abbandona;
e quando l’asfalto li porta lontano, in un altro quartiere uguale,
il marciapiede non lascerà nessuna traccia di dove sono passati.