Varvàra Alexandrovna
Un ramo arido di betulle batte
con dentro il verde su una finestra a vortice
di Mosca. Di notte la Siberia stacca il suo vento
lucente sul vetro di schiuma, una trama
di corde astratte nella mente. Sono malato:
sono io che posso morire da un minuto all'altro;
proprio io, Varvàra Alexandrovna, che giri
per le stanze del Botkin con le scarpette di feltro
e gli occhi frettolosi, infermiera della sorte.
Non ho paura della morte
come non ho avuto timore della vita.
O penso che sia un altro qui disteso.
Forse non ricordo amore, pietà, la terra
che sgretola la natura inseparabile, il livido
suono della solitudine, posso cadere dalla vita.
Scotta la tua mano notturna, Varvàra
Alexandrovna; sono le dita di mia madre
che stringono per lasciare lunga pace
sotto la violenza. Sei la Russia umana
del tempo di Tolstoj o di Majakovschij,
sei la Russia, non un paesaggio di neve
riflesso in uno specchio d'ospedale
sei una moltitudine di mani che cercano altre mani